Il Kenya come paese che accoglie rifugiati

Oggi, 20 giugno, è la giornata mondiale del rifugiato.
La definizione di rifugiato, escludendo strumentazioni politiche e semplificazioni date dagli organi di stampa, è data dall’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951.

Qui leggiamo che il rifugiato è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

Quando pensiamo ai rifugiati, non possiamo fare a meno di pensarci come paese ospitante, anzi come uno dei paesi che ospita più rifugiati e richiedenti asilo in Europa e nel mondo.

In realtà, la maggior parte dei rifugiati nel mondo cerca riparo nei paesi vicini, creando situazioni molto difficili da gestire in cui un paese in gravi difficoltà economiche o magari esso stesso in guerra, che si trova ad accogliere migliaia e migliaia di rifugiati.

I rifugiati in Kenya

Come paese ospitante una delle più grandi popolazioni di rifugiati in Africa, il Kenya ospita oltre 520.000 rifugiati e richiedenti asilo, tra cui più di 287.000 provenienti dalla Somalia, circa 142.000 dal Sud Sudan, circa 50.000 dalla Repubblica Democratica del Congo e 31.000 dall’Etiopia. La maggioranza dei rifugiati si trova nel campo di Dadaab a sud-est, nel campo di Kakuma a nord-ovest e a Nairobi.

Uno sguardo a Dadaab, un immenso campo profughi al confine con la Somalia

Dadaab, uno dei campi profughi più grandi del mondo, fu costruito nel 1991 proprio per ospitare i rifugiati somali in fuga dalla guerra civile seguita alla destituzione del presidente Mohamed Siad Barrè. È, di fatto, l’unione di 5 campi profughi; in tutto ospita circa 300 mila persone. Questa gigantesca struttura ha di fatto inglobato al suo interno el tre città di Hagadera, Dagahaley e Kambios, le cui economie si basano ormai quasi esclusivamente sulla gestione dei profughi e rifugiati ospitati nel campo.

A Dadaab – circa 100 km dal confine somalo – purtroppo c’è un serio problema di sovraffollamento e le infrastrutture sono così precarie che è difficile tenere il passo con la popolazione in aumento. I bagni non bastano, sono pochi e saranno sempre di meno considerando il numero crescente di abitanti. La gente spesso è costretta a organizzarsi all’aperto, ma le feci diventano un viatico per la diffusione delle malattie, soprattutto quando arriva un alluvione e il campo si allaga, con il conseguente ritorno endemico del colera.

Luoghi come Dadaab nascono, sulla carta, per fornire una “protezione in strutture temporanee e garantire assistenza immediata alle persone costrette a fuggire a causa di guerre, persecuzioni o violenze”. La realtà è ben diversa, dato che le emergenze di tramutano ben presto in crisi croniche, rendendo la permanenza all’interno del campo permanente. Così oggi Dadaab, il campo nato per tamponare la fuga dei somali in guerra, è il campo delle tre generazioni: dei padri, dei figli e dei figli dei figli. Con una propria economia informale e una propria società.

il che cozza pesantemente con quello che è stato l’approccio del governo di Nairobi sulla tematica, partendo dal confinamento, spostando i profughi in una zona semi arida, lontana dai centri urbani, un po’ per evitare scontri con la popolazione locale, un po’ per disincentivarli a restare. A questo principio rispondono le regole che vietano a chi vive a Dadaab di entrare e uscire liberamente dal campo, e di costruire un edificio permanente.

La realtà, come detto, è ben diversa. La comunità somala ha costruito le proprie moschee, le botteghe, le scuole, a Daadab si nasce, e si cresce, si celebrano matrimoni e si seppelliscono i morti, i blocchi di baracche hanno un nome come fossero quartieri. Là dove doveva esserci un campo per un’accoglienza temporanea, si è creata una città fatta di distese immense di baracche.

I paesi in via di sviluppo non hanno i mezzi per accogliere

Dadaab rappresenta solo il caso più eclatante ed emblematico della cattiva gestione dei rifugiati da parte di governi di paesi in via di sviluppo che non hanno i mezzi, organizzativi e soprattutto economici, di gestire flussi così grandi di rifugiati e richiedenti asilo.

Flussi che interessano tantissimi paesi e che cresceranno sempre di più. Secondo i dati del World Economic Forum entro il 2050 il cambiamento climatico potrebbe costringere più di 200 milioni di persone a migrare all’interno dei propri Paesi, spingendo fino a 130 milioni di persone in una condizione di povertà e polverizzando decenni di sviluppo.

Situazioni come quelle di Dadaab potrebbero quindi diventare la norma all’interno del continente africano, anche in paesi relativamente stabili come il Kenya. Un dramma che deve essere affrontato e che deve trovare spazio all’interno del nostro dibattito pubblico.


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