L’esperienza di Francesca, la responsabile della raccolta fondi, nei nostri progetti in Kenya

Nelle scorse settimane, Francesca, la nostra nuova responsabile della raccolta fondi, ha visitato per la prima i nostri progetti a Nairobi. È stata l’occasione di toccare finalmente con mano il nostro lavoro quotidiano, di conoscere di persona il nostro staff keniano e i bambini beneficiari dei nostri progetti. Le abbiamo fatto alcune domande su questa esperienza incredibile.

Ciao Francesca, in questi mesi hai potuto conoscere i progetti di Alice for Children occupandoti della raccolta fondi. Quali erano le tue aspettative prima di partire per l Kenya? Com’è stato toccare con mano quello che facciamo ogni giorno?

Ero molto consapevole della fortuna che avevo. Lavoro da molti anni nel terzo settore e non sono molte le cause in cui, occupandoti della raccolta fondi, puoi anche toccare con mano i frutti del tuo lavoro quotidiano. Poterlo fare è un grande privilegio.

Mi aspettavo, e sono felice di averla trovata, una situazione di forte dinamismo, una realtà in rapido mutamento. In questi mesi ho imparato a conoscere i progetti attraverso i racconti e le comunicazioni che facciamo ogni giorno, quindi ho trovato tutto abbastanza famigliare. Partivo con la voglia di riempire la valigia di emozioni e sensazioni diverse e intense, così come di una diversa prospettiva.

Era la tua prima esperienza in un paese in via di sviluppo? Com’è stato approcciarsi nelle baraccopoli di Nairobi?

Nella vita sono sempre stata una viaggiatrice seriale e accanita, sopratutto in realtà nel sud del mondo e in paesi in via di sviluppo. Per cui una parte di me era già preparata a una realtà difficile come le baraccopoli. Ciò non toglie che il Kenya rappresenti per me un paese nuovo, e ho cercato di approcciarmici con tutto il rispetto possibile. Entrare in una baraccopoli è un grande esercizio di pulizia mentale, in cui elimini pregiudizi che magari ti porti dietro da una vita, ma anche di rispetto verso la dignità delle persone, che in un contesto così difficile risalta ancora di più.

Hai avuto la possibilità di conoscere di persona i membri dello staff in Kenya. Che impressione ti hanno fatto?

L’accoglienza che ho ricevuto è stata davvero piacevole e impattante. Mi sono sentita immediatamente come parte integrante del team. Ho visto persone dedite e appassionante al loro lavoro, che sono abituate a gestire problematiche sempre diverse con professionalità e attenzione.

Com’è stato invece conoscere i bambini delle scuole e di Alice Village? 

I bambini sono fantastici a qualunque latitudine. Anche in questo caso, mi hanno accolto con grande trasporto ed empatia. Mi sono resa conto di quanto la nostra presenza a Nairobi li renda felici. Sanno che sei lì per loro e per lavorare per il loro futuro e questo li rende sicuri e orgogliosi.

Che tipo di emozioni porti con te dopo un’esperienza di questo tipo?

Gratitudine, speranza e una fortissima energia. Sono grata per tutto quello che ricevuto dai miei colleghi. Ma mi porto anche dietro una gran voglia di fare; ho visto quanto ogni piccolo sforzo porti ad un risultato concreto. Non vedo l’ora di continuare ad impegnare, a fare e progettare per il futuro dei bambini.

Ci racconti qualcosa di particolare, magari un aneddoto, sul tuo viaggio-missione in Kenya?

Ho due aneddoti. Il primo è accaduto a Rombo, la comunità Masai in cui lavoriamo. Mentre visitavamo una scuola, sono arrivate a trovarci alcune madri Masai. Ho parlato con una madre che accompagnava una bambina e che aveva un altro bambino più piccolo legato alla schiena. Mi ha indicato, usando le dita, il numero dei suoi figli. Incredibilmente le sue mani non bastavano.

Ho visto nei suoi occhi le difficoltà che viveva ogni giorno per crescere i suoi 12 figli. Si è messa a piangere e ci siamo abbracciate, da mamma a mamma.

Il secondo è accaduto ad Alice Village, il nostro orfanotrofio. Abbiamo avuto un incontro con alcuni dei ragazzi più grandi. Alcuni di loro hanno iniziato a farmi delle domande da “grandi”, chiedendomi perché molte persone di pelle bianca odiano gli africani.

Io ho deciso di parlare a loro così come parlo ai miei figli, raccontando loro una storia che facesse capire cosa vuol dire discriminare e quanto fosse sbagliato. Man mano i ragazzi si sono aperti e hanno parlato della loro esperienza, dicendo che per chi cresce in una baraccopoli essere discriminati è la normalità.
È possibile uscire dallo slum, ma è più complesso togliere “l’onta” di esservi cresciuti dalla reputazione di una persona, anche all’interno della stessa Nairobi.

Ho spiegato loro quanto debbano essere fieri del percorso che stanno facendo, quanto il loro futuro non sia scritto dal loro passato, ma dall’impegno che mettono ogni giorno nello studio e nella loro crescita.
Ho anche pensato a quante piccole e grandi battaglie i ragazzi e le ragazze dello slum devono combattere ogni giorno. Battaglie che non riguardano solo i bisogni primari o la sopravvivenza, ma il benessere psicologico, l’essere accettati dalle altre persone, avere un futuro normale nella loro città e nel loro paese.

Un aspetto del mio lavoro che ho potuto capire davvero solo parlando direttamente con loro, confrontandomi direttamente e senza alcun filtro con la realtà in cui Alice for Children lavora ogni giorno.

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