Massacro di Shakahola

Il massacro di Shakahola

All’inizio di febbraio 2024, il predicatore keniota Paul Nthenge Mackenzie è stato incriminato per l’omicidio di 191 bambini e bambine, per terrorismo e tortura di minori.

Questo è solo il punto di arrivo di una storia tragica e complicata. Per capirla, occorre fare un passo indietro.

I fatti

Nell’aprile del 2023, a Kilifi, una zona costiera del Kenya, sono stati ritrovati i corpi di decine di persone. Era l’esito di un’indagine avviata tempo prima dalla polizia nella foresta di Shakahola, poco lontano dalla località turistica di Malindi. Con la prosecuzione delle indagini, nell’area sono state scoperte delle fosse comuni, per un totale di oltre 400 corpi, tra cui 191 bambini.

In base alle condizioni in cui si presentavano i cadaveri e alle autopsie effettuate, la conclusione è stata che una gran parte delle persone decedute erano morte di fame, mentre altre presentavano segni di violenze, come soffocamenti, strangolamenti e percosse. Inoltre, stando a quanto riportato da svariati mezzi di informazione internazionali, sono stati riscontrati diversi casi di salme alle quali erano stati rimossi gli organi.

Si teme inoltre che il conteggio totale delle vittime non sia completo e che possano ancora essere scoperti i corpi di centinaia di persone.

mappa Shakahola

In seguito, è emerso che queste persone facevano parte della Good News International Church (letteralmente, Chiesa Internazionale della Buona Novella).

La Good News International Church

Si tratta di una setta religiosa di ispirazione cristiana evangelica fondata da Mackenzie e sua moglie nel 2003 e che radunava centinaia di seguaci. Mackenzie lavorò come tassista a Malindi dal 1997 al 2003, periodo durante il quale fu penalmente accusato diverse volte per i suoi sermoni particolarmente aggressivi, ma poi assolto per mancanza di prove.

Durante gli anni di attività come predicatore, incontrò diverse volte problemi con la legge per le accuse che gli venivano mosse rispetto alla diffusione di idee radicali ed estreme. Si consideri che in Kenya, fino a quel momento, accuse di tale tipo erano state rivolte principalmente a persone di fede musulmana autrici di attacchi terroristici.

Il culto della setta propagandava, anche tramite internet e canali TV, una visione apocalittica dell’universo, sostenendo che la fine del mondo fosse imminente e Mackenzie affermava di poter comunicare direttamente con Dio.

Dopo aver ottenuto considerevoli somme di denaro dai seguaci stessi, nel 2019 la setta si stabilì nella tenuta di Shakahola, di proprietà di Mackenzie stesso. Per molti, l’arrivo della pandemia di Covid-19 rappresentò una conferma delle profezie del predicatore: centinaia di persone lasciarono le proprie abitazioni e si unirono, alcune con l’intera famiglia, alla comunità. 

Gli adepti vennero gradualmente e forzatamente allontanati da servizi come la sanità e la scuola e attività come lo sport, presentati come “i mali della vita occidentale”.

Secondo le ricostruzioni, il pastore avrebbe poi convinto i membri della setta a lasciarsi morire di fame per raggiungere il paradiso e “incontrare Gesù”.

Mackenzie è stato arrestato e, insieme ad altri 29 collaboratori, dovrà affrontare un processo per i reati di terrorismo, omicidio e tortura di minori.

Le questioni collaterali del massacro di Shakahola

Oltre al terribile fatto in sé – la morte di centinaia di persone -, il tragico avvenimento solleva degli interrogativi spinosi e forse non più rimandabili.

Per esempio: è opportuno regolamentare i culti “indipendenti”?
E, se – come sembra – la risposta è affermativa, in che modo?

Si tenga conto che in Kenya – un Paese di circa 55 milioni di abitanti – circa una persona su cinque si identifica come appartenente alla corrente religiosa del cristianesimo evangelico. L’aspetto problematico della questione risiede nel fatto che, contrariamente a quanto accade per la Chiesa cattolica o altre confessioni religiose, i gruppi di stampo evangelico fanno spesso capo a predicatori privi di formazione teologica, autoproclamati, non sottoposti ad alcuna supervisione da parte di autorità religiose superiori e che propugnano interpretazioni delle sacre scritture discutibili e potenzialmente dannose per gli adepti.

L’attuale presidente del Kenya, William Ruto, è il primo presidente della storia del Paese ad appartenere alla corrente religiosa del cristianesimo evangelico, di cui peraltro sua moglie è predicatrice. Ruto si è sempre presentato molto permissivo nei confronti delle confessioni religiose non regolamentate. Dopo la scoperta dei drammatici fatti, il presidente non ha potuto fare a meno di assumere una posizione più netta e critica nei confronti di Mackenzie e della sua attività, definita come “atto di terrorismo”.

Ruto ha inoltre incaricato una commissione di leader religiosi ed esperti legali di elaborare proposte per regolamentare il settore dei culti religiosi in Kenya.

Rimane, tuttavia, il fatto che le comunità religiose mantengono un forte peso politico e un’influenza socio-culturale, oltre che stretti legami con le persone che ricoprono posizioni di potere.

Meno risoluto è apparso invece il vicepresidente Righati Gachagua (la cui moglie è predicatrice di una chiesa da lei stessa istituita), che non si è espresso criticamente sulla vicenda appellandosi alla libertà di culto garantita dalla Costituzione keniota. I fatti di Shakahola, purtroppo, ci insegnano una volta di più che anche le libertà e i diritti devono avere dei limiti e delle regole, per non diventare strumento di offesa di altri diritti (in questo caso quello alla vita, per esempio).

Un’altra questione sollevata è: perché le autorità di polizia non hanno approfondito a sufficienza la vicenda, nonostante tutte le avvisaglie verificatesi durante gli anni di attività di Mackenzie come predicatore? Molte testimonianze di familiari delle vittime, peraltro, raccontano di richieste di denaro da parte della polizia stessa per avviare le indagini a seguito delle denunce di scomparsa che venivano presentate.

Sono dunque molti i dubbi che sorgono anche rispetto a quanto e come le autorità amministrative e di polizia locali si siano interessate ad avvenimenti che, a più riprese, si verificarono in una zona del Paese peraltro situata in prossimità di località turistiche certamente non lontane dai riflettori.


Come Alice for Children, siamo stati toccati piuttosto da vicino dalla triste vicenda. Alcuni bambini che avevano fatto parte del nostro programma e avevano vissuto ad Alice Village – il nostro orfanotrofio a Nairobi – erano tornati alle famiglie di origine su ordine del tribunale minorile, nonostante il nostro parere fortemente contrario.

Alcune di queste famiglie, infatti, facevano parte o erano comunque legate alla setta di Mackenzie e non ritenevamo fosse opportuno effettuare i reintegri familiari in presenza di situazioni potenzialmente pericolose per loro e, soprattutto, per i bambini.

Ad oggi, purtroppo, non abbiamo notizie certe riguardo ad un eventuale coinvolgimento di questi bambini nei tragici fatti raccontati sopra.

La nostra speranza è che il massacro di Shakahola, uno dei casi di morte di massa legata ad un culto religioso più eclatanti della storia, possa servire per fare luce sulle zone d’ombra in cui personaggi carismatici e malintenzionati agiscono, a spese di persone sprovviste degli strumenti intellettuali, sociali ed economici per riconoscere la minaccia che spesso si nasconde dietro a queste comunità religiose.

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