musica tribale in Africa

Uno sguardo oltre la musica tribale in Africa

Sulla musica tribale in Africa si scrive e si è scritto tanto. Ora è venuto il tempo di parlare della musica che a suo modo ha fatto la storia nei paesi africani. Quali sono i brani e gli artisti che hanno avuto un ruolo importante sul piano politico e sociale e che hanno specchiato la realtà storica del loro paese? Premettendo che l’Africa è un continente e ha poco significato parlare di musica africana tout court prescindendo da un discorso focalizzato sulle singole scene nazionali, di seguito è possibile citare alcune delle figure storiche del ‘mondo musicale africano’. 

Oltre la musica tribale In Africa: Umm Kalthoum e il nasserismo

Un primo esempio di musica che va aldilà della musica tribale in Africa è Umm Kaltoum, nata in una povera famiglia religiosa di un villaggio del delta del Nilo, ha trascorso tutta la sua carriera cantando la grandezza dell’Egitto. Quando il paese subì una bruciante sconfitta per mano degli israeliani nel 1948, tenne un concerto per la brigata egiziana che aveva combattuto nell’assedio di al-Faluja, a cui assistette anche il presidente Gamal Abd el-Nasser. 

Questi, dopo il rovesciamento del re Farouk I, divenne il nuovo leader del paese e prese Kalthoum sotto la sua ala. E infatti, la cantante tramite la sua voce fu una delle maggiori promotrici del progetto panarabo di Nasser e del nazionalismo egiziano: il suo repertorio includeva canzoni patriottiche che lodavano la grandezza della nazione egiziana, come Nashid al-Huriyya (“L’inno della libertà”) e Walla Zaman Ya Selahy (“È passato molto tempo, o arma mia”).

Quest’ultimo fu composto dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez e sarebbe diventato l’inno nazionale del paese. Le canzoni di Kalthoum ebbero un ruolo fondamentale nell’espansione del prestigio e dell’influenza dell’Egitto ben oltre i confini della nazione: i suoi brani erano ascoltati da un pubblico che si estendeva dall’Iraq al Marocco. “Enta Omri”, registrato nel 1964 per l’etichetta Sono Cairo (ripubblicato in vinile nel 2019 da Souma Records), può essere visto come uno strumento del soft power egiziano.

Miriam Makeba e l’Apartheid

Sin dall’età di 14 anni, quando iniziò l’apartheid, Miriam Makeba s’impegno contro la segregazione in Sudafrica. A 20 anni era già madre di una bambina di tre anni, era sopravvissuta al cancro al seno e aveva un divorzio alle spalle. Il  brano “Pata Pata” è stato originariamente registrato in Sudafrica dal gruppo di Makeba, The Skylarks, nel 1959. La canzone è un mix di influenze pop, jazz e gospel e ha portato al gruppo successo i tutto il paese, ma la canzone non ha guadagnato l’attenzione internazionale.

Makeba è diventata un’icona della lotta anti-apartheid, e la sua lunga storia di coinvolgimento nella lotta all’oppressione razziale ha attribuito a Pata Pata un carattere politico, tanto che, nel 2020, Angélique Kidjo lo ha definito un inno contro le ingiustizie dell’apartheid. L’attivismo sociale Miriam Makeba ha posto bruscamente fine alla sua carriera in Sudafrica: la sua apparizione in “Come Back, Africa”, un film anti-apartheid diretto dal regista americano Lionel Rogosin e presentato  al Festival di Venezia del 1959, la costrinsero a vivere in esilio per più di 30 anni. Privata della sua cittadinanza e del diritto di tornare in Sud Africa, Makeba non fu nemmeno in grado di partecipare al funerale di sua madre nel 1960.

Fela Kuti e gli “zombie”

Di tutte le canzoni che Fela Kuti ha pubblicato nel corso degli anni, Zombie è probabilmente la più memorabile e quella che ha sconvolto la vita del musicista ghanese. Il suo album, con lo stesso nome, è uscito nel 1977 ed era nato su ispirazione alle idee di Malcolm X, Kwame Nkrumah e Frantz Fanon. Fela Kuti diede gradualmente alla sua musica una direzione più radicale, mescolando messaggi panafricani con attacchi rivolti alle multinazionali occidentali e alle giunte militari al governo nella sua patria.

Dal palco delle discoteche dove si esibiva, Kuti ha criticava l’abuso di potere, la corruzione, la disuguaglianza e la violenza che affliggevano il paese. Dopo aver suonato il brano davanti a un pubblico allo stadio di Accra, in Ghana, nel 1978, la canzone infiammò gli spettatori al punto che si scontrarono con la polizia, incorrendo poi in una feroce  e sanguinosa repressione.

Nel gennaio 1977 boicottò a Lagos il Secondo Festival mondiale delle arti e della cultura nera e africana e  si esibì in una serie di concerti gratuiti, attirando l’attenzione di spettatori e giornalisti. In quella occasione, suonò per la prima volta “Zombie” con la sua band, Africa 70.

Nella canzone, che mescola l’Highlife ghanese, le percussioni tradizionali e l’Hard Bop, Kuti canta in inglese pidgin, delle misteriose creature non morte che hanno ispirato la canzone: “Zombie no go go, a meno che tu gli dica to go / Zombie no go stop, a meno che tu non gli dica di smettere / Zombie no go, pensa, a meno che tu non gli dica di pensare.” La metafora è ovvia: i burattini senza cervello controllati da padroni assetati di sangue sono soldati nigeriani.

Non solo musica tribale in Africa

I tre artisti di cui abbiamo scelto di parlare fotografano un panorama musicale che diverge un po’ dallo stereotipo dominante della cultura africana,  secondo il quale esiste soltanto la musica tribale in Africa. Non è così, la musica nel continente ha una sua storia e una sua evoluzione che riflette il clima politico e culturale nazionale e internazionale e che, come detto, di discosta senza problemi dagli stilemi della musica tribale africana Bisognerebbe essere consapevoli che la musica è un prodotto culturale in movimento e con tanti significati e che servirebbe immergersi in profondità nella vita di tutti i giorni di un paese per capirli realmente. 

Se alle conoscenze della musica tribale in Africa aggiungessimo lo studio della musica contemporanea, avremmo senza dubbio un quadro più completo e informato per capire l’Africa di oggi.

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